Senza titolo 137

I collect, I reject memorabilia. Non riesco a ricordare quando io mai mi sia sentito così bene. Dev’essere stato il periodo trascorso con te, prima della guerra. Oppure quando eravamo dogi dello scantinato, gran consiglio della mansarda, truppe al nostro stesso comando sguinzagliate per la città a far guadagnare sociologi e cronisti di nera. Dietrich, Raimundo, Cousin Jerry, e io. Max, Noodles, e io. Ribaldi ma nobili, avanzi dei Piombi e però cortesi, colti, umani. Di un pezzo. Quando e dove arrivavamo era la festa che si portava, anzi che ci seguiva inevitabile al guinzaglio.

buttarsi a piedi pari nella vasca del campari
abbattere la notte a raffiche di cordon rouge

Avevamo individuato una tana collettiva nel dignitoso relais di un artista architetto con la testa nuda come un cristo gotico, e vantavamo ospiti sedimentati nelle più prestigiose correnti bohemienne internazionali. Il Vetraio di Nantes, le arpiste normanne, la stampa indipendente di Los Angeles. Qualche rissaiolo veneziano da curva, fotografi e proiezionisti, filmaker e semplici drogati. L’horrore della Nizza che verrà, insomma. Professionisti dell’agguato, dignitari dello sbocco, e la bella Grisò.

che potevamo andarcene a ragazze
o giù al Lido

La banda Spessotto e la banda Albano (Veneto Orientale) erano mutue gregarie, complice l’esiguità dei passi da percorrere fra San Francesco della Vigna e la Bragora. E se ci si prestava caso, una volta svicolati a sinistra, si apriva e si apre tuttora -ché non lo hanno portato via- il campo Do Pozzi, dove Licia Maglietta riuscì a sfuggire eccetera eccetera. Era il Triangolo de le Gate, cazzu iu.

E insomma Max, e Noodles, erano con me anche quel carnevale. Ci sarebbe stato il solito veglione in cui sai chi esce ma non chi entra, era dai tempi delle Guglie che andava così. Il sabato lo si sarebbe trascorso a molestarci a Rialto, si sa, il Carnavà de’ Viniziani cade il sabato all’Erbaria, con la balcanaglia che suona, la straniera che ammicca, il contadino che chiede cartine. Dell’altro vino si sarebbe versato.
Ma la domenica, oh, la domenica. La domenica italiana è una domenica serena: per tutti, ma non per noi.

Restava ancora qualcosa da pulire e da sistemare quando, manco bardati e per ciò guardati con schifo, vagammo per la fondamenta che era stata nostra e dove ci conoscono per nome e censo. Dentro la seconda tappa di sempre (ché, si sa, è Aldo-Paradiso-Iguana o Iguana-Paradiso-Aldo a seconda che si salga dal Ghetto o da Santa Fosca) scioglievamo i postumi di nessun bagordo. Quando dalla tavolata impervia si scorgono delle parrucche dogali, e stavolta non erano gli americani, ma i musicisti della congrega, la co(o)rte di Venezio Capossela… eccolo là, che siede e mangia, e corteggia e beve, tanto non suona, e non mi pare abbia punta voglia…

…si andò avanti fino alle quattro, chi dice le sei. Locale che scoppiava peggio di un uovo in un supermercato di Portogruaro. Maurizio che ingaggiava battaglie verbali con l’ebbro celebrante della nottata, il cui microfono faceva fatica a sovrastare quanto di bacchico aleggiava. E poi sì, ormai è leggenda, Max Noodles e io appollaiati sul pianoforte a decidergli la scaletta al momento, giù di San Giacomo esiste anche la calle del Scaleter, dev’essere stato quello che scriveva la playlist ai caposseli di quando si dominava il mondo. E pianti e nebbia e donne e videoriprese e onde e rebetiko e gente seduta in riva e bicchieri e lo portaron / al camposanto.

Fu eletto d’imperio Re del nostro Carnevale, ma non sapevamo certo al momento che non sarebbe stato mai più così. Mai più così lui, che ci era già venuto a trovare prima di un natale magico, e sarebbe tornato ancora a nostra insaputa, tipo ai Postali in Rio Marin. Mai più così pure noi, per niente obbligati a lasciare quella vita, man mano che i contrafforti d’ogni dove se ne ripartivano e restavamo soli con le nostre scadenze o miserie.

Jojo si credeva Voltaire, e Pierre, Casanova. E io che ero il più fiero, io mi credevo… me.

Max Jojo è diventato ausiliario medico, esercita nel grosso centro rivale, e abita nella prima campagna. Ha una donna deliziosa che viene da molto lontano, e ha praticamente abdicato all’essere veneziano. Pierre Casanova è stato abilitato a scavare, ritoccare, ricostruire opere e segni umani. Non c’è sito che non stia esplorando, e quando gli riesce si invola in bici che manco Bartali. Patagonia, Boemia, ancora Argentina, Sicilia orientale. Ogni tanto rientra, saluta, si annoia e riparte, come i lupi.

se il padreterno l’aveva abbandonato
ora i paesani se l’hanno accompagnato
che grande festa poterselo abbracciare
che grande festa portarselo a mangiare

Io invece. Lo sapete, je me prenais encore pour moi. E rimpiango, accatto brandelli di quel passato come foto di mariti morti in guerra, per convincermi che possono tornare. La realtà sta tutta nelle possibilità di aver trent’anni per sempre, con lo spirito dei venticinque e le sagge rinunce dei cinquanta.
Ché quanto si stava giorno dopo giorno vivendo era una parabola magari senza morale: ma nè più nè meno quanto ci faceva vivere, o per lo meno ritenere di essere vivi.
E arriva il momento per cui una persona non ancora compiuta e vessata da una cosmicità di ostacoli, ecco a questo povero cristo viene negato perfino il ripetere fatuo splendor di suo stesso passato, e allora

lo vedi, adesso, che cos’è successo, Nutless?


(Vinicio suonerà stasera al Toniolo di Mestre. Assieme a lui, Asso.)
Precedente Senza titolo 136 Successivo Senza titolo 138

I commenti sono chiusi.